Teatro

STIFFELIO A CATANIA

STIFFELIO A CATANIA

Cinque anni dopo il debutto sul palcoscenico del Teatro Grande di Trieste, avvenuto il 16 novembre 1850, un Verdi insoddisfatto ritirò dalle scene il suo “Stiffelio”, del quale rimase in giro solamente qualche copia dello spartito per voce e piano. La partitura completa non era stata mai stampata; quanto a quella autografa, se la fece addirittura riconsegnare da Ricordi, e se ne persero le tracce. Nell’agosto 1857 il compositore presentava a Rimini il meno coerente “Aroldo”, che riciclava parte del materiale musicale del primo ed utilizzava un soggetto abbastanza diverso. Alla fine, per lungo tempo “Stiffelio” fu considerato un melodramma perduto, ma tramandatoci all’interno della sua secondaria derivazione. Per una inaspettata circostanza, tra il 1966 ed il 1967 venne invece rinvenuto prima a Napoli e poi a Vienna svariato materiale d'epoca, il che permise agli studiosi di ricostruire con una certa fedeltà l'aspetto primigenio del lavoro triestino: in tal modo, cento e passa anni dalla sua prima apparizione, nel dicembre 1968 al Regio di Parma l’opera risuscitava dall'oblio secolare sotto la bacchetta di Peter Maag. Inevitabilmente nacqua qualche polemica, perché allora non tutti avvertivano il bisogno di tale recupero ritenendo che la musica di “Stiffelio” fosse comunque tutta trasfusa nel successivo “Aroldo”. Opinione corrente, e comune a (quasi) tutti gli studiosi; e che, in assenza dell'autografo e di partiture a stampa, non poteva essere altrimenti contraddetta. Si potè stabilire invece, una volta per tutte, che si trattava di due lavori distinti non solo nel libretto (rifatto di sana pianta per ragioni di censura), ma anche per forma e carattere; nonché per gran parte della musica contenuta al loro interno. In pratica, Verdi per Rimini aveva finito con lo scrivere una partitura quasi del tutto nuova. Ma la cosa non finì qui: nel 1992, l'incredibile ritrovamento negli armadi di Villa Verdi a Sant'Agata della partitura autografa del Maestro - un bel faldone rilegato in cartone, contenente anche sessanta pagine di abbozzi -  permise finalmente di redigere l’edizione critica di “Stiffelio”, che venne infine pubblicata da Ricordi e dalla Chicago University Press nel 2003. In tale veste l’opera era già stata presentata in anteprima al Metropolitan di New York dieci anni prima, con la direzione scintillante di James Levine e con la voce di Placido Domingo: l’esecuzione dal vivo e la ripresa video DGG, rivelarono anche al grande pubblico un lavoro di cospicuo spessore drammatico e musicale. Lavoro conologicamente incastonato tra “Luisa Miller” e “Rigoletto”, cioè ormai nella piena maturità del musicista di Busseto. Né v’era più spazio per le riserve della critica e dei musicologi (anche se Massimo Mila, con la consueta acutezza, aveva già definito da tempo il duetto tra Lina ed il marito del III atto come «dieci minuti di oro musicale purissimo».
Da allora le riprese di “Stiffelio” nella versione critica non sono mancate: assai significative, in particolare, quella al Verdi di Trieste - cioè lo stesso “Grande” del 1850 - nell’anno verdiano 2001, testimoniata da una registrazione Dynamic con la bacchetta di Nicola Luisotti, e le voci di Giorgio Casciarri, Marco Vratogna, Dimitra Theodossiou; come pure quella, più recente dell’aprile 2012, data al Regio di Parma (direttore Andrea Battistoni, con Roberto Aronica, Roberto Frontali e Yu Guanqun), anche questa rintracciabile in un DVD Unitel. Curiosamente, sono i due luoghi della nascita e della resurrezione di questo lavoro, il che qualcosa vorrà pur dire…
In partenza, lo “Stiffelio” che abbiamo visto al Teatro Bellini di Catania doveva avere la regia di Guy Montavon, e scene e costumi di Francesco Calcagnini: doveva cioè essere lo stesso spettacolo parmense, coprodotto dal Regio con l’Opéra di Montecarlo, ambientato in una chiusa cerchia Amish. Alla fine i vertici del teatro siciliano hanno deciso altrimenti, preferendo un allestimento più spartano, ma non meno efficace nel descrivere una indefinita comunità protestante – Stiffelio è definito un ministro assaveriano –  pervasa da un atavico senso dell’onore e nella quale pochi sono gli orpelli e le distrazioni. Un grande spazio vuoto, attraversato da un lungo tavolone posto al centro, qualche sedia, due scale ai lati, una grande Bibbia aperta al centro; poi una croce lignea che incombeva sulle tombe del cimitero, alla fine un grande pulpito a focalizzare gli sguardi. Sullo sfondo grandi proiezioni in bianco e nero che aiutavano a individuare via via le ambientazioni: il salone del castello di Stankar, il sepolcreto, le navate della chiesa evengelica. Quanto al coro, vestito tutto a nero, restava sullo sfondo immoto nel suo compito di freddo commentatore esterno della vicenda. Le scene erano ideate a quattro mani da Renzo Milan e Salvatore Tropea, mentre a Ezio Donato spettava il compito di costruire una regia appropriata, che accompagnava senza calcare la mano lo svolgersi della vicenda. Dora Argento ha curato i costumi dei personaggi, che ci riportavano in pieno Ottocento, mentre Salvatore Da Campo ha disegnato con grande intelligenza le luci.
Ben due erano i debutti nei rispettivi ruoli, in un’opera che per gli interpreti principali presenta non poche difficoltà esecutive. Roberto Iuliano era Stiffelio, e lo era per la prima volta: ha superato bene e senza problemi lo scoglio di una tessitura spesso ardita, e che necessita di robustezza granitica - non siamo tanto lontani da quella di un Otello - grazie alla voce solida, limpida e generosa, alla fantasia espressiva, al piacevole fraseggio messi in mostra. Quello che mancava nella sua interpretazione era però un più profondo riscontro psicologico del suo personaggio, uomo vissuto, complesso ed introverso, tormentato da opposti sentimenti (quelli dell’amore coniugale non corrisposto, del senso dell’onore, del convincimento religioso); personaggio con più sfacettature, e per questo invero assai difficile da cogliere e sviluppare sino in fondo. Comunque, nella sua completezza già a portata di mano del giovane e bravo tenore milanese, se avrà l’occasione di poterlo affrontare nuovamente.
La cosa, in questa direzione, è riuscita meglio a Giuseppe Altomare, e non solo grazie all’emissione sicura, al timbro interessante, al fraseggio pertinente – doti impegnate a fondo in una tramatura anch’essa abbastanza acuta ed disagevole - ma anche per l’immedesimazione nella figura del vecchio e fiero Stankar, uomo dal carattere sanguigno e roccioso: due fattori che messi insieme rendevano la sua presenza in scena pienamente convincente, e gli consentivano di dispiegare fedelmente e con affinità spirituale l’articolato e poderoso monologo «Ei fugge!...Lina, pensai che un angelo».
A Dimitra Theodossiou i panni di Lina stanno benissimo indosso, non serve dirlo; lo riscontriamo sin dalle recite triestine del 2001, anche perché il registro mediamente centrale del ruolo, quello che le è più congeniale, le permette di realizzarsi al meglio. Perfettamente adeguata sul piano espressivo, il soprano greco - maestra nel tratteggiare i caratteri femminili - riesce a trovare in ogni momento i giusti salienti emotivi, e quanto a vocalità rimane sempre una grande interprete verdiana. Specie nel momento magico di «Oh cielo! Dove son io…Ah dagli scanni eterei» (siamo nella scena del cimitero, bell’anticipo dell’orrido campo del «Ballo in maschera»), sa come disegnare alla perfezione, in ogni minimo particolare, uno dei vertici più affascinanti dell’arte verdiana; ma non è da meno nei torridi confronti con il marito ed il padre durante i quali si conferma interprete di rango.
Quanto alle parti di contorno, accanto al superbo e severo Jorg di Mario Luperi conviveva l’inconsistente Raffaele di Giuseppe Costanzo; Salvatore D’Agata era Federico, Loredana Rita Megna era Dorotea, Luca Iacono Fritz, Marina La Placa la cameriera.
Antonino Manuli si è mostrato concertatore molto attento e calibrato, in un’opera così ricca di possibilità espressive: bastava sentire come ha ben risolto il complicato settimino «Colla cenere disperso» che apre uno squarcio meditativo e solenne nell’atto primo; né da meno è stato nel concitato Finale, scena tra le più innovative ed audaci del giovane Verdi. La brava Orchestra del Bellini – encomiabile nella luminosa sinfonia - lo ha fedelmente assecondato nella scelta di stacchi di tempo spediti, nella ricerca delle giuste atmosfere, nel restituire una forte senso di teatralità all’insieme. Impeccabile la prestazione del Coro catanese, preparato con la consueta precisione da Tiziana Carlini.
La seconda compagnia vedeva la presenza nei ruoli principali di Giorgio Casciarri, Daniela Schillaci e Hayato Kamie.